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Il “ritorno” dell’Educazione civica nella scuola italiana : un’opportunità partita male.Ma….

Articolo di Pierfrancesco Fodde.

Fin dalla fondazione della nuova Italia risorgimentale, l’idea di Camillo Benso conte di Cavour della necessità di “fare gli Italiani” ha delegato alla scuola la formazione del buon cittadino, facendo dei maestri elementari nell’Italia di fine ottocento quasi dei “sacerdoti laici” di una “religione civica”, in un doppio ruolo, di educazione culturalee”civica”. Era ed è ancor oggi una impostazione condivisa, tanto che in molti paesi europei il ministero si chiama dell’Educazione” e/o “della Formazione”, e non solo dell’Istruzione, come in Italia. Nell’Italia del secondo dopoguerra, segnata da scelte istituzionali fondamentali (La Repubblica, l’Assemblea Costituente, la Costituzione), la questione relativa alla formazione alla cittadinanza è statooggetto di ampio dibattito, drogato però da un vizio di forma all’origine, perché la necessità di introdurre a scuola una forma autonoma di “educazione civica” ha sempre trovato la via di leggi insufficienti, che hanno seguito l’unica vera “linea guida” (parole oggi di grande e spesso inappropriato uso, vista la pochezza di certe “linee guida”)che accomuna la lunga litania di riforme che hanno scandito la storia del nostro paese in termini di scuola “senza nuovi o ulteriori oneri per la finanza pubblica”.

Insomma, come diceva un vecchio adagio, le tante “riforme” della scuola sono state molto spesso come le famose “nozze con i fichi secchi”.

Questione che ha riguardato l’atteggiamento complessivo della classe politica verso il sistema scolastico e universitario italiano, ma che, nello specifico dell’educazione civica si è espresso con particolare “coerenza” : di questa fantomatica “materia-non materia” sono state previste linee guida, abilitazioni, progetti. Tutto, tranne l’unica cosa che sarebbe servitaa dare concretezza di appartenenza a un curricolo scolastico: un docente in cattedra e almeno un’ora di insegnamento a settimana.

Tutto inizia con il DPR 585/1958 (GovernoMoro), quando per la prima volta si stabilisce che «i programmi d’insegnamento della storia, in vigore negli istituti e scuole d’istruzione secondaria ed artistica, sono integrati da quelli di educazione civica». Eccol’idea, tutt’ora dominante, che l’educazione civica sia compito di tutta la scuola(Idea, peraltro, non del tutto peregrina), ma competenza specifica dell’insegnante di Lettere(Idea fuorviante); proprio per questo, viene inserita tra le conoscenze necessarie per prendere l’abilitazione in quella classe di concorso. Per quanto riguarda la collocazione oraria, si dice solo che l’insegnante di storia dovrà dedicare alla materia «due ore mensili», senza alludere a una separata valutazione. È in questa forma che l’educazione civica sopravvive addirittura fino al 2008, quando la ministra Gelmini –nell’ambito di una presunta attenzione riformista che guardava, nelle dichiarazioni, a un fantomatico “buon tempo antico” (ad esempio propugnando il ritorno al grembiule o al maestro unico, o ,addirittura,”la lettura della Bibbia”) ma di fatto si caratterizzòsempre con la parola che meglio spiegaval’ennesima “riforma” : “tagli”–tornavasulla questione, sostenendo la sua volontà di dare maggiore lustro alla formazione civica. Per l’occasione, la legge 169/2008 le cambia nome in “Cittadinanza e Costituzione”, ma non la struttura di “materia-non materia” : nessuna collocazione oraria nel curricolo, nessun insegnante dedicato, abilitazione compresa nell’insegnamento di Lettere.

E poco cambia anche con la successiva L. 222/2012 che, riconoscendo nel 17 marzo(in ricordo della proclamazione dell’Italia unita del 1861)la «Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera», all’art. 1 sancisce,nell’ambito di Cittadinanza e Costituzione,la necessità di organizzare percorsi volti a sensibilizzare gli studenti sugli eventi e i simboli dell’unità nazionale, anche in una prospettiva europea.

Si arriva così alla presente e tormentatalegislatura, quando (ancora ministro del governo Conte 1, il burocrate di area leghista Busseti), in pieno agosto e con gli italiani in vacanza, con la legge 92/2019, “Cittadinanza e Costituzione” torna a essere “educazione civica”, con grandi brindisi alla “novità”e i votiparlamentari di tutti, perché non c’è nulla come un rito unanimistico, possibilmente a costo zero, per cementare maggioranza e opposizione su un’immagine stereotipatadei propri ricordi scolastici, e pazienza se la realtà, quella di un sostanziale disinteresse per la scuola pubblica, in realtà prevede altro.

Dopo di chè, dimessosi il nuovo ministro del gioverno Conte 2, Fioramonti, proprio per l’incosistenza delle risorse economiche destinate alla scuola e all’università, , nel mezzo dell’emergenzapandemica , la sostituta di questidel governo Conte 2 , Lucia Azzolina, fa uscire il Decreto 35/2020, «Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica, ai sensi dell’articolo 3 della legge 20 agosto 2019, n. 92», inviate alle scuole senza tenere in conto(come è prassi di questa ministra) di nessuna delle richieste sostanziali di modifica proposte in merito dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione.

I contenuti della “rinnovata” educazione civica sono stati autorevolmente e ironicamente definiti”life, world and everything” : una lunghissima lista di educazioni e competenze la cui realizzazione compiuta sarebbe impossibile in due vite intere, figuriamoci in due cicli scolasticicon 33 ore annuali. Demandate nei contenuti specifici, in via “sperimentale” per tre anni, alle singole istituzioni scolastiche e ai loro Collegi Docenti.

Inostri legislatori e il ministero hanno superato loro stessi in “abilità” : una nuova disciplina, con tanto di voto numerico,magari determinante per l’esito dell’annoscolastico, a costo zero (nessun docente dedicato), ma con la retorica strumentale della “trasversalità” della disciplina per giustificare il suo obbligo di insegnamento da parte di ciascun consiglio di classe, cioè ogni docente in proporzione al proprio orario.

Infatti la modalità organizzativa è coerente con questo “capolavoro” di ipocrisia. Poiché, si trattava di inserire un totale di 33 ore annuali, di una materia per la quale vi sono insegnanti che avrebbero una specifica abilitazione in tal senso (per esempio: i docenti di diritto, e quelli di lettere, la cui abilitazione in Storia recita “Storia ed educazione civica”), l’osservatore di buon senso potrebbe pensare che una buona idea poteva essere di mettere un’ora in più alla settimana nel monte ore annuale dei diversi gradi, ordini e indirizzi, e poi di servirsi, per insegnare qualcosa che vuole una competenza specifica, di insegnanti già abilitati per quello.

Invece no. Visto che comunque non deve costare un euro alle casse dello Stato, il metodo sceltoè quello di utilizzare la legge e il regolamento sull’autonomia scolastica (in questo modo si perpetua l’illusione che ogni scuola potrà daresfogo alla propria “creatività didattica”). In pratica tutti gli insegnanti dovranno impiegare (in realtà tagliare alla loro programmazione di materia) qua e là qualche ora dal loro monte ore, in modo da andare a comporre la fatidica quota di 33 annuale richiesta senza aumentare le ore settimanali e poter permettere così ad un docente del consiglio di classe insignito dei “galloni” di coordinatore “esperto” di espletare il suo compito nella “nuova”materia (gratuita a spese delle altre discipline).

Tanto, se qualcosa si fa a costo zero, senza tenere in considerazione abilitazioni disciplinari e competenza,si può sognare in grande: l’Università della vita consente di prendere pronte abilitazioni quasi in tutto, basta un breve corso, magari ‘trasversale’, magari in modalitàblended(9 ore in presenza e poi una relazione da caricare in piattaforma, totale 25 ore –così funziona la formazione nella “buona scuola” voluta dal governo Renzi): perché servirsi di insegnanti in quella materia abilitati? Quello che serve a completare una operazione di pura facciata è solo avere a disposizione ‘una casella’: se prevedoun voto autonomo, da esibire nella pagella finale alle famiglie, che cosa importa se non deriva da un’ora in più a settimana, insegnata e pagata da un docente specifico? È il (solito) gioco delle tre carte: raddoppio la torta tagliandola a metà.

Nel prossimo articolo sul tema cercherò comunque di illustrare quali possibilità educative può perseguire tale disciplina, nonostante tutte le “tare” da cui è colpita. Perché la scuola vera sa trasformare “i bruchi in farfalle”….

Gender gap e materie scientifiche

Articolo di Carla Franceschini.

Nel 2015 le Nazioni Unite hanno approvato l’”agenda 2030”. Hanno così dichiarato gli obiettivi da raggiungere entro il 2030 con lo scopo di ottenere un futuro migliore per tutti riducendo povertà, fame, diseguaglianze affrontando i cambiamenti climatici e migliorando le condizioni lavorative.

Se ci focalizziamo, in particolare, sui punti 4 (Istruzione di qualità) e 5 (parità di genere) possiamo fare alcune considerazioni che possono aprire un dibattito importante e fondamentale per il rilancio anche del nostro Paese.

Ai nostri giorni, le parole che più ricorrono sono DIGITALIZZAZIONE e INNOVAZIONE che sono la base dell’INDUSTRIA 4.0. Si tratta, all’interno dell’automazione industriale, di integrare tecnologie produttive per migliorare condizioni di lavoro e aumentare la produttività degli impianti. Non bisogna però lasciarsi ingannare dai termini “industria / impianti” in quanto è tutta la società che sta cambiando e che deve cambiare. La terribile esperienza legata al COVID che abbiamo vissuto ma che ancora oggi stiamo vivendo ha messo in risalto il concetto evidenziando le lacune esistenti.

Oggi le professioni che richiedono competenze digitali sono circa il 50% ma nei prossimi anni arriveranno all’80% e sono tutte basate su competenze STEM (Scienza Tecnologia, ingegneria e matematica) anche se oggi non conosciamo ancora quali saranno le professioni richieste nei prossimi anni.

Il problema è che circa il 70% dei posti legati alle discipline STEM riguarderanno l’informatica ma solo l’8% dei laureati soddisferanno le richieste del mondo del lavoro.

Un altro problema da non sottovalutare è il cosiddetto GENDER GAP. Le professioni STEM normalmente sono appannaggio del genere maschile, 70-80%, percentuale che si riscontra già a partire dalle facoltà universitarie.

Tuttavia,spesso nell’opinione pubblica emerge, rispetto a queste facoltà, un luogo comune decisamente radicato, che questi tipi di corsi siano più adatti ai ragazzi che non alle ragazze. Le studentesse italiane stanno invece dimostrando come questo concetto sia assolutamente sbagliato e c’è anche un’altra notizia confortante: l’Italia è, tra le nazioni Europee, la migliore se si guarda al rapporto degli iscritti alle facoltà STEM tra uomini e donne.

Le statistiche dicono che in Italia circa il 37% degli iscritti alle facoltà STEM sono donne contro una media europea del 32% e sono anche più brave se si analizzano sia i voti di laurea sia i tempi di completamento degli studi.

Da questi dati emerge il fatto che è fondamentale sensibilizzare i giovani alla scelta delle facoltà STEM le cui competenze nel prossimo futuro saranno, in ottica di occupabilità, sempre più ricercate dal mondo del lavoro ma soprattutto sarà necessario riuscire a superare e far superare gli stereotipi di genere per far sì che le ragazze prendano sempre più in considerazione queste facoltà e inoltre il mondo del lavoro deve diventare meno discriminante nei loro confronti. Perché se è vero che le ragazze hanno competenze e risultano migliori dei loro colleghi uomini è pur vero che a parità di inserimento dopo qualche anno la loro retribuzione è inferiore ai colleghi uomini.

Le migliori performance accademiche delle donne sembrano non essere premiate né al livello occupazionale né salariale: gli uomini guadagnano circa il 25% in più delle donne.

Ma se a livello scuola questa differenza non viene percepita dagli studenti, perché in ambienti di lavoro si verifica il paradosso: sei più brava ma ti pago di meno?

Christine Lagarde ha detto “Le donne costituiscono il 40% della forza lavoro globale ma rimangono un potenziale inespresso” e non credo solo per una questione economica…

Mi pare importante concludere con una frase di Roald Hoffman (Nobel per la chimica nel 1981) che dovrebbe inorgoglire ogni donna e far riflettere ogni uomo: “Amo troppo la scienza per privarla dell’intelligenza delle donne.”

Scuola che assume come propria finalizzazione lo sviluppo della persona nella sua interezza, come comunità che dialoga e collabora con le imprese quando pensa alla formazione del cittadino anche in quanto lavoratore con un’organizzazione partecipata e non verticistica, proprio perché la complessità può essere gestita mettendo insieme più punti di vista.Per far questo, quale è il paradigma da cambiare alla Einstein? Bisogna passare dal capitale umano a quello dello sviluppo umano che tiene presente la crescita della persona nella sua interezza, non solo come lavoratore/lavoratrice. Il paradigma dello sviluppo umano, dovuto ai lavori di Sen, è centrato sull’espansione delle libertà personali e vede l’istruzione come fattore di emancipazione individuale e di promozione della democrazia. O meglio bisognerebbe arrivare a un’idea di scuola che riesce a portare a sintesi questi due paradigmi, dove però lo sviluppo umano deve essere preminente e costituire la cornice entro la quale assimilare criticamente gli elementi del paradigma del capitale umano che vanno costruiti insieme al mondo del lavoro. Il principio formativo della scuola deve essere concepito in relazione all’uomo concreto, definito dai suoi rapporti sociali. Si tratta di portare a sintesi la formazione del produttore e quella del cittadino, nella consapevolezza che ciò risponde a un’esigenza non solo ideale ma anche oggettiva, che rende oggi necessaria lo sviluppo di intelligenze più astratte, flessibili ed ecologiche.Ai fini della partecipazione democratica, la complessità dei problemi sociali esige un’intelligenza sistemica, capace di cogliere le questioni nella loro totalità. Per coltivare una simile forma d’intelligenza la scuola va liberata da compiti direttamente professionalizzanti, rafforzando la formazione culturale generale, la coltivazione dell’abito della ricerca e la capacità di pensiero critico. La scuola, insomma, deve formare persone capaci di pensare con la propria testa e che abbiano il coraggio di usarla, sia nel lavoro che nella politica. Una scuola quindi che riesca a formare “lavoratori, critici” che diventino una risorsa non solo esecutiva, ma anche proattiva.Risulta fondamentale inserire tutto ciò in una visione sistemica: è un compito complesso e lungo che però può individuare le sue priorità all’interno della situazione emergenziale in cui ci troviamo. Cioè investire, da subito, sulla valorizzazione della professionalità docente, sui ragazzi e le ragazze, sulle STEAM e sulla didattica laboratoriale, sulla didattica digitale, sull’architettura scolastica e sul rapporto con le imprese.

Una nazione a rischio: la scuola motore dello sviluppo di una società giusta, equa, solidale ed economicamente sviluppata.

Articolo di Lorella Carimali.

La scuola italiana è l’istituzione che più sta pagando la crisi innescata dalla pandemia Covid-19, coinvolgendo quasi 10 milioni di persone tra studenti, insegnanti, dirigenti e operatori.
L’Italia è l’unico paese avanzato al mondo che ha disposto una chiusura prolungata, che ha messo a nudo tutte le carenze strutturali del nostro sistema, in particolare quelle che riguardano l’edilizia scolastica –che dovrà rapidamente adattarsi alle opportune misure di sicurezza anti-Coronavirus -e la didattica digitale, che non ha potuto essere sfruttata al meglio sia per mancanza di devices adeguati, sia perché non era nella pratica didattica di una parte degli insegnanti.

Chi ha salvato la situazione in questi mesi? La scuola stessa e, soprattutto, gli insegnanti.

I dati dimostrano che sul piano delle competenze tecnico-scientifiche e digitali della popolazione, l’Italia appare in grave ritardo rispetto agli altri Paesi europei, confermandosi tra i fanalini di coda: secondo l’indice Desi 2020 elaborato dalla Commissione Europea, il Belpaese si colloca in una posizione migliore solo di Romania, Grecia e Bulgaria. Ma soprattutto in Italia non esistono un pensiero matematico diffuso e una visione di sistema come strategie per risolvere i problemi.

Una situazione così drammatica rischia di aggravare le disuguaglianze sociali del Paese: non si tratta semplicemente di lasciare indietro i più fragili, ma soprattutto di ridurre le possibilità che tanti giovani abbiano accesso a un’istruzione in grado di valorizzarne le potenzialità, coltivarne i talenti, accompagnarli nella ricerca di sé stessi e verso il mondo del lavoro per una cittadinanza pienamente attiva. Meno giovani hanno accesso a un’istruzione di qualità, più povero sarà il Paese. Si considera pertanto necessario affrontare la questione su due piani differenti: quello emergenziale, con l’obiettivo di arrivare a una riapertura di tutte le scuole di ogni ordine e grado, e quello di prospettiva, con l’intento di gettare le basi per un rilancio della scuola italiana che deve diventare la priorità assoluta dell’agenda politica nei prossimi mesi e anni.

Nell’ambito di tale rilancio la scuola può giocare un ruolo proattivo nel rapporto con le imprese, assumendo una chiave di indirizzo e sviluppo e stravolgendo vecchi paradigmi, un po’ come fece Einstein quando aprì la strada a un nuovo mondo andando oltre gli steccati della meccanica classica, rivoluzionando il concetto di spazio e di tempo con l’obiettivo di formare liberi pensatori.

La scuola, infatti, è un fattore chiave per lo sviluppo economico del Paese e lo sarà ancora di più in una fase di ricostruzione come quella del post-Coronavirus.

Non un costo, ma un investimento. Non una voce di nicchia sull’agenda politica, che fa rumore soltanto quando non funziona, ma una questione che vede operare insieme Governo, Parlamento, parti sociali e opinione pubblica. Una scuola ovunque e comunque, chiave di volta della rinascita dell’Italia.

Ma da dove partire? Rendendo concreta e operativa una frase che in questi mesi è stata detta più volte: “Nessuno si salva da solo”.

Che significa questo? Vuol dire che è necessario ripensare le alleanze e costruire quei patti educativi di comunità che non devono solo essere relegati all’emergenza della riapertura fisica delle scuole.

Scuola che assume come propria finalizzazione lo sviluppo della persona nella sua interezza, come comunità che dialoga e collabora con le imprese quando pensa alla formazione del cittadino anche in quanto lavoratore con un’organizzazione partecipata e non verticistica, proprio perché la complessità può essere gestita mettendo insieme più punti di vista.

Per far questo, quale è il paradigma da cambiare alla Einstein? Bisogna passare dal capitale umano a quello dello sviluppo umano che tiene presente la crescita della persona nella sua interezza, non solo come lavoratore/lavoratrice. Il paradigma dello sviluppo umano, dovuto ai lavori di Sen, è centrato sull’espansione delle libertà personali e vede l’istruzione come fattore di emancipazione individuale e di promozione della democrazia. O meglio bisognerebbe arrivare a un’idea di scuola che riesce a portare a sintesi questi due paradigmi, dove però lo sviluppo umano deve essere preminente e costituire la cornice entro la quale assimilare criticamente gli elementi del paradigma del capitale umano che vanno costruiti insieme al mondo del lavoro. Il principio formativo della scuola deve essere concepito in relazione all’uomo concreto, definito dai suoi rapporti sociali. Si tratta di portare a sintesi la formazione del produttore e quella del cittadino, nella consapevolezza che ciò risponde a un’esigenza non solo ideale ma anche oggettiva, che rende oggi necessaria lo sviluppo di intelligenze più astratte, flessibili ed ecologiche.

Ai fini della partecipazione democratica, la complessità dei problemi sociali esige un’intelligenza sistemica, capace di cogliere le questioni nella loro totalità. Per coltivare una simile forma d’intelligenza la scuola va liberata da compiti direttamente professionalizzanti, rafforzando la formazione culturale generale, la coltivazione dell’abito della ricerca e la capacità di pensiero critico. La scuola, insomma, deve formare persone capaci di pensare con la propria testa e che abbiano il coraggio di usarla, sia nel lavoro che nella politica. Una scuola quindi che riesca a formare “lavoratori, critici” che diventino una risorsa non solo esecutiva, ma anche proattiva.

Risulta fondamentale inserire tutto ciò in una visione sistemica: è un compito complesso e lungo che però può individuare le sue priorità all’interno della situazione emergenziale in cui ci troviamo. Cioè investire, da subito, sulla valorizzazione della professionalità docente, sui ragazzi e le ragazze, sulle STEAM e sulla didattica laboratoriale, sulla didattica digitale, sull’architettura scolastica e sul rapporto con le imprese.

Scuola che assume come propria finalizzazione lo sviluppo della persona nella sua interezza, come comunità che dialoga e collabora con le imprese quando pensa alla formazione del cittadino anche in quanto lavoratore con un’organizzazione partecipata e non verticistica, proprio perché la complessità può essere gestita mettendo insieme più punti di vista.Per far questo, quale è il paradigma da cambiare alla Einstein? Bisogna passare dal capitale umano a quello dello sviluppo umano che tiene presente la crescita della persona nella sua interezza, non solo come lavoratore/lavoratrice. Il paradigma dello sviluppo umano, dovuto ai lavori di Sen, è centrato sull’espansione delle libertà personali e vede l’istruzione come fattore di emancipazione individuale e di promozione della democrazia. O meglio bisognerebbe arrivare a un’idea di scuola che riesce a portare a sintesi questi due paradigmi, dove però lo sviluppo umano deve essere preminente e costituire la cornice entro la quale assimilare criticamente gli elementi del paradigma del capitale umano che vanno costruiti insieme al mondo del lavoro. Il principio formativo della scuola deve essere concepito in relazione all’uomo concreto, definito dai suoi rapporti sociali. Si tratta di portare a sintesi la formazione del produttore e quella del cittadino, nella consapevolezza che ciò risponde a un’esigenza non solo ideale ma anche oggettiva, che rende oggi necessaria lo sviluppo di intelligenze più astratte, flessibili ed ecologiche.Ai fini della partecipazione democratica, la complessità dei problemi sociali esige un’intelligenza sistemica, capace di cogliere le questioni nella loro totalità. Per coltivare una simile forma d’intelligenza la scuola va liberata da compiti direttamente professionalizzanti, rafforzando la formazione culturale generale, la coltivazione dell’abito della ricerca e la capacità di pensiero critico. La scuola, insomma, deve formare persone capaci di pensare con la propria testa e che abbiano il coraggio di usarla, sia nel lavoro che nella politica. Una scuola quindi che riesca a formare “lavoratori, critici” che diventino una risorsa non solo esecutiva, ma anche proattiva.Risulta fondamentale inserire tutto ciò in una visione sistemica: è un compito complesso e lungo che però può individuare le sue priorità all’interno della situazione emergenziale in cui ci troviamo. Cioè investire, da subito, sulla valorizzazione della professionalità docente, sui ragazzi e le ragazze, sulle STEAM e sulla didattica laboratoriale, sulla didattica digitale, sull’architettura scolastica e sul rapporto con le imprese.

Ripartire dalla Scuola per un futuro migliore

Articolo di Lorella Carimali.

Potrei dire ripartiamo dalle “S”: società, sviluppo, solidarietà, sostenibilità, scienza, sogno, speranza, sanità e scuola.

Investire sulla scuola per rilanciare il nostro Paese, perché lì ci sono tutte le “S” e ci sono quelle giovani e quei giovani che sono il nostro presente, ma soprattutto il nostro futuro e la nostra speranza per un mondo migliore. Noi però li stiamo dimenticando e ignorando: la scuola deve passare dal capitolo spesa a quello dello sviluppo economico, e i numeri della dispersione scolastica e dei Neet sono terribili. Uso il termine “terribile” consapevolmente, perché la matematica ci insegna che dietro ai numeri c’è molto altro e in questo caso ci sono ragazzi e ragazze, giovani donne e uomini a cui viene negata la speranza di poter progettare il proprio futuro, di sognare e di cambiare il proprio modo di vedere sé stessi e il mondo.

Oggi, le diseguaglianze sociali non sono più solo questione di reddito, ma consistono anche nel non poter usufruire delle stesse opportunità per realizzare i propri progetti di vita e per veder fiorire talenti e aspirazioni. Don Milani sottolineava che i diritti costituzionali, come l’uguaglianza, non dovessero significare solo la possibilità di diventare dottori in medicina o ingegneri ma soprattutto la possibilità di essere “sovrani di noi stessi”. Una società equa e solidale deve fornire a tutti le risorse culturali e di pensiero necessarie per una piena cittadinanza e per trovare la propria radice quadrata della vita.

Io ho avuto questa possibilità e per questo devo ringraziare la scuola e la matematica. Una scuola che deve sempre più essere presidio di speranza e fiducia oltre che di legalità e che deve includere tutti, per far nascere sogni.

Riflessioni in libertà intorno a una nuova strada da seguire

Articolo di Lorella Carimali.

Avevo pensato di scrivere un articolo sulla scuola, ma poi c’è stato l’annuncio del risultato delle elezioni negli Stati Uniti con i bellissimi discorsi del nuovo Presidente e della sua Vice e ho deciso di iniziare condividendo con voi alcune mie riflessioni pubblicate sul mio profilo Facebook dal titolo “Harris e Biden! Le elezioni negli Stati Uniti ci indicano la strada…riusciremo a capirla?”

Bisogna investire sull’unione, sui diritti civili, sui giovani e sulle giovani, su persone che abbiano storia fattiva e competenze solide,ma soprattutto che sappiano coordinare e fare sintesi: si vince solo insieme! L’uomo solo al comando, anche se è ancora forte (70 milioni di voti fanno riflettere), non trionfa! Si vince insieme anche con la prima vicepresidente donna della storia americana e con le differenze che diventano risorsa fondamentale per il rilancio. Sì, perché a portare Biden alla Casa Bianca è stata la scommessa su Kamala Harris, padre giamaicano e madre indiana, prima donna eletta vicepresidente. Harris ha portato milioni di elettrici afroamericane al voto, senza dimenticare un ceto medio proletarizzato bianco che questa volta ha scelto di iscriversi nelle liste elettorali, attratto dalla carica prorompente di una donna pronta a dare battaglia sui diritti civili.

“Cura”risuona più volte nelle parole di Biden,insieme a dignità, equità, scienza e speranza!

Ma non ci si ferma qui: Harris declina questi concetti e li rende concreti. “La democrazia non è una cosa garantita per sempre” ha esordito, citando il leader della lotta per i diritti civili John Lewis; “col vostro voto avete mandato un messaggio chiaro, avete scelto la speranza, l’unità, la decenza, la scienza e la verità“.

Il passaggio più applaudito è quando ha ricordato di essere arrivata alla vicepresidenza “sulle spalle” di tutte le donne che hanno combattuto per il diritto di voto: “sebbene io sia la prima donna a ricoprire questo incarico, non sarò l’ultima. Penso a intere generazioni di donne che hanno lottato per questo preciso momento. Penso alle donne che hanno combattuto e sacrificato così tanto per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia per tutti, comprese le donne afroamericane, spesso trascurate ma che spesso dimostrano di essere la spina dorsale della nostra democrazia”.

Rivolta ai giovani: “Abbiamo un messaggio chiaro per voi: sognate con ambizione, guidate con convinzione e guardate a voi stessi in modi che forse gli altri non vedranno, ma semplicemente perché non lo hanno mai visto prima. E noi vi applaudiremo ad ogni passo“.

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